Il Mobbing: attori, direzionalità del processo vessatorio ed effetti sulla sfera psichica individuale

Il Mobbing: attori, direzionalità del processo vessatorio ed effetti sulla sfera psichica individuale

Per mobbing si intende non una patologia, ma una forma di terrore psicologico messa in atto nell’ambiente di lavoro mediante una serie di comportamenti aggressivi e vessatori deliberatamente voluti, ripetuti nel tempo, da parte del datore di lavoro, superiori o colleghi nei confronti di una vittima designata, con gravi conseguenze a livello psicofisico. Il soggetto può essere sistematicamente calunniato, emarginato, deriso e sottoposto a compiti dequalificanti attraverso varie modalità che hanno come finalità ultima quella di portarlo alle dimissioni volontarie o a un licenziamento.

Caratterizzandosi come fenomeno complesso e multifattoriale il mobbing prevede la compresenza di diversi attori che possono interagire tra loro in maniera diversa ma sempre peculiare. La vittima del mobbing è il cd. mobbizzato. Non esiste un profilo o una categoria di persone che possono essere maggiormente predisposte a diventarlo, ma possono essere individuate alcune situazioni tipo o configurazioni contestuali che sono state riscontrate con particolare frequenza. Si pensi a esempio a una donna in un ufficio di soli uomini (o viceversa), a un giovane inserito in un team già affiatato di esperti, a una persona ben qualificata a livello di titoli ma con scarsa esperienza professionale assunta direttamente come capo ufficio o a un unico dipendente con spiccate competenze, di molto superiori rispetto agli altri colleghi. Ricerche in merito alla condotta post mobbing della vittima hanno mostrato che esistono due particolari pattern comportamentali: il primo prevede una diminuzione dell’attività comunicativa verbale e non verbale, una riduzione dei rapporti interpersonali e del volume di lavoro eseguito; il secondo invece è caratterizzato da un incremento dell’attività gestuale e verbale e da un aumento del grado di attività e coinvolgimento lavorativo. Nessuno dei due modelli comportamentali ha mostrato apportare risultati significativi; questo perché la condotta mobbizzante, l’isolamento della vittima e la finalità distruttiva sono fondamentalmente decise a priori, indipendentemente dal comportamento del mobbizzato, che anzi spesso è preso a pretesto dell’azione vessatoria.
L’autore o il pianificatore dell’azione mobbizzante è invece il cd. mobber. Più che un profilo individuale è possibile estrapolare un profilo motivazionale che guida il comportamento di questa figura. Paura di essere superato da qualcuno più qualificato e preparato, timore di perdere la posizione lavorativa guadagnata nel lungo periodo a beneficio di terzi, volontà di abbattere qualsiasi ostacolo (o presunto tale) si ponga davanti, antipatia o intolleranza anche immotivata, difficoltà di adattamento a un contesto mutato rispetto a quello usuale, sono solo alcuni dei pretesti alla base dell’azione vessatoria. Il mobber può agire da solo o cercare supporto e alleati e può mettere in atto una strategia passiva, attiva o mista. Le strategie passive utilizzano modalità meno dirette e si incentrano generalmente sull’ignorare la controparte, affidare un carico di lavoro esagerato e mettere sotto pressione con scadenze. Le strategie attive invece puntano sulla critica e la presa in giro sistematica nei confronti del mobbizzato ma anche sul mettere in moto un circolo vizioso di false voci sul suo conto.
Nel fenomeno del mobbing assumono rilievo anche i cd. spettatori, cioè tutte quelle persone che non sono coinvolte direttamente, ma lo sono in maniera diversa o riflessa. A esempio un collega che assiste sistematicamente all’azione vessatoria, non la denuncia, non difende o non cerca di interrompere il circolo vizioso può configurarsi anche come un side-mobber che alimenta il fenomeno attraverso l’indifferenza e l’indisponibilità a intervenire, creando addirittura un substrato fertile al suo sviluppo. Lo spettatore, inoltre, potrebbe avere la possibilità e gli strumenti per mettere un punto all’azione vessatoria, in caso di riconoscimento della stessa e posizionamento in organigramma superiore rispetto al mobber.

Rispetto ai soggetti coinvolti e alla loro posizione gerarchica in azienda o ufficio è possibile individuare diverse macrocategorie di mobbing:

  • mobbing verticale: la condotta persecutoria coinvolge soggetti posizionati diversamente lungo la scala gerarchica. Può essere di tipo discendente quando è un superiore o il datore di lavoro a esercitare la condotta vessatoria nei confronti di un sottoposto. In questo caso si può parlare anche di bossing. Diversamente si fa riferimento al tipo ascendente quando è il subordinato a attaccare un soggetto a lui sovraordinato;
  • mobbing orizzontale: la condotta mobbizzante è esercitata da uno o più colleghi posti allo stesso livello della mobbizzato;
  • mobbing misto: è esercitato sia da colleghi pari grado della vittima sia da uno o più superiori, i quali solidarizzano contro il mobbizzato per motivi simili o eterogenei.

L’impatto del mobbing sulla sfera psichica individuale può cagionare una menomazione dell’integrità psicofisica, con emersione psicopatologica (danno biologico psichico) o di alterazioni nel modo di vivere ed esperire le relazioni lavorative, sociali, e familiari; queste ultime possono intaccare la piena espressione della personalità nel mondo esterno (danno esistenziale) e generare contestualmente uno stato di sofferenza psichica causata dal trauma o dall’atto illecito (danno morale).
In tale contesto, dal punto di vista giuridico, per poter definire delle azioni o una serie di atti come mobbizzanti devono essere presenti tre condizioni fondamentali:

  1. elemento soggettivo: è necessaria l’intenzionalità dell’atto, deve essere quindi presente la volontà da parte del mobber di colpire qualcuno per arrecargli danno e/o per trarne beneficio in maniera diretta o indiretta;
  2. elemento temporale: le azioni vessatorie devono essere ripetute nel tempo, portate avanti di settimana in settimana in maniera sistematica e cumulativamente per un periodo costituente più mesi;
  3. elemento dannoso: le azioni devono arrecare danno al soggetto, secondo una logica di causalità, dal punto di vista psicofisico, familiare, lavorativo, economico, sociale e relazionale.

Nello specifico l’art. 2087 c.c. recita che il datore di lavoro è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. La norma pone quindi a carico dell’imprenditore e del datore di lavoro obblighi di garanzia e protezione ai fini individuali su base contrattuale, e per questo è egli stesso che ex art. 1218 c.c. ha l’onere di provare che l’inadempimento della prestazione è dipesa da causa a lui non imputabile. Al tempo stesso il lavoratore deve invece dimostrare che sia sopravvenuto un danno da lesione dell’integrità psicofisica, evidenziando il nesso di causalità tra la condotta subita e il danno ricevuto, sia esso di natura psichica, esistenziale o morale.

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